02/04/12

LO lighting objects/ Còultar



Còultar
è un termine dialettale. Nelle campagne tra Bologna e Ferrara identifica la lama centrale dell'aratro, ovvero quella che taglia la terra prima che le altre, in successione, la sollevino in zolle.
Recuperata dopo averla trovata dismessa e dimenticata, è stata equipaggiata con led array di potenza e dotata di dimmer (variatore di intensità luminosa), in grado di mettere in luce unicamente l'oggetto, l'ambiente circostante e all'occorrenza entrambi. In linea con lo stile LO Còultar si illumina e a sua volta illumina a bassissimi consumo e impatto ambientale. Tra le soluzioni di lighting design qui in parte documentate, una in particolare richiama simbolicamente l'antica funzione svolta, disegnando sulla parete un solco virtuale.
Còultar è uno degli oggetti prototipo della serie LO (lighting objects) starter del progetto re-do.it .

















13/11/09

AM con violoncello














Acciaio, saldatura, resine, pigmenti, polveri di marmo
e foglia oro/ cm.150x110


particolari...









10/10/09

PAOLO CARLETTI/Frigo: il Catalogo






















L’esigenza di documentare per immagini e testi l’operazione FRIGO, mi si presentò a progetto avanzato. Pensai a un catalogo cartaceo, particolare. La completa gestione di elementi e fasi progettuali, fatta eccezione per la stampa offset, mi erano assicurate da un personale background di graphic designer e di illustratore. Libertà tecnica e realizzativa, ovvero delegare il meno possibile, non era fattore che mi dispiacesse.
Ma dovevo decidere cosa, e soprattutto come realizzarla.
Avendo chiaro che testi e imagini, per quanto fossero risultate documentarie, mi avrebbero comunque reso impossibile trasmettere l’anima del lavoro, mi complicai consapevolmente le cose. Decisi di realizzare un catalogo che fosse a sua volta un’Opera. Perchè solo un’altra Opera, opportunamente congeniata e relazionata al progetto, avrebbe potuto in tal senso.
Circa cosa inserirvi, oltre immagini, specifiche e quant'altro, reputai utile una sezione che rendesse giustizia del gravoso impegno investito. L’esperienza ricavata dai primi pezzi lavorati mi segnalava la palese difficoltà per chiunque di stimare tempi, costi e mole complessiva dell'operazione. Pertanto decisi di intitolare Storia di un recupero una sezione ricavata ad hoc, nella quale descrivevo transizione e materiali occorsi all’Oggetto.
Riguardo al come… volevo trovare una soluzione consona, che trasmettesse ciò che le immagini non potevano dire. Così cominciai col lavorare a un formato inusuale, piccolo, che risultasse però discretamente pesante, come pesanti erano gli Oggetti trattati. Una specie di raccoglitore di schede che ricordasse le mazzette colore, ma con prerogative di consistenza e peso specifico, alto sia fisicamente che concettualmente parlando. Campionario da sfogliare, ma privato di quella leggerezza e di quella velocità di consultazione tipiche studiate per i comuni campionari.
Sperimentando perni, bulloni e metalli, ricavai delle lastre che bucai in angolo e vincolai a una vite facendole scorrere l’una sull’altra, proteggendo così le parti interne. In copertina BLAUHAUS®, marchio e firma degli oggetti che produco.
I primi prototipi prevedevano l’utilizzo del ferro, del rame e dell’alluminio, da soli o combinati. Da lì la decisione di produrre 110 esemplari in alluminio con divisore interno in rame, e 110 esemplari in rame con divisore interno in alluminio. Una tiratura limitata di cataloghi/Opera, numerata e firmata. All’interno della quale ogni esemplare fu personalizzato con una scheda acquarellata a mano. Nella totalità dei 220 esemplari prodotti inserii volutamente un pezzo unico, a ricordare la transizione da seriale ad unicum dell'Oggetto FRIGO: il n.60 della serie in rame, aerografato in copertina.
I primi 10 pezzi, sia dell'una che dell'altra tipologia, li realizzai con astuccio in legno.







16/09/09

PAOLO CARLETTI/Frigo: sul progetto

ABOUT THE PROJECT

















Certe forme destano interesse... 
 è la frase ad incipit del catalogo, documento accompagnatorio e non solo del progetto FRIGO.
Il contrasto tra uno stato di degrado oggettivo e l'evidente pregnanza formale esibita fu la molla d'innesco. Partendo dalla caratteristica bombatura degli oggetti osservati, entrai nei particolari di quel che genericamente potrebbe dirsi un recupero, dove la fase lunga e difficile del restauro non era che uno strumento. Ciò che mi spingeva ad agire era soprattutto lavorare sul concetto di identità dell'oggetto. L'idea fu di dare nuova vita (ancor più che ridar vita) a qualcosa che reputavo non l’avesse persa come poteva sembrare, o si volesse far sembrare. A qualcosa cioè che stava conoscendo la nebbia, l'oblio. Intendendo per oblio l'azione arbitraria, la sorte che l'uomo proietta sugli oggetti prodotti come su ciò che gli pre esiste in natura, indipendentemente dai cicli vitali. Nuova vita quindi, ma "altra".



Lavorando al progetto a metà circa degli anni '90 fui portato a seguire, istintivamente prima e strategicamente poi, lo stereotipo di una bellezza oltre misura "piacevole", per non dire stucchevole. Cercai di risultare il più "decorativo” possibile, alias il più "bello” possibile. In buona parte, circa il grado di finitura, mi avvalsi della mia perizia di aerografista, il cui humus era di per sè panacea iperrealista per un modo di guardare al bello come imitazione perfetta.
Pensai a una vera e propria esca, a un richiamo irresistibile per mani e occhi. Una specie di vetrina dei sensi, allargata e trasversale quanto a gusti e a gusto comune.
Una sorta di godimento cromatico che risultasse il più attraente e immediato possibile, tanto da relegare i soggetti raffigurati a una condizione di subalternità rispetto all'impatto procurato [cosa che non piacque affatto a chi avrebbe voluto vedere nella cosa un'operazione di design prettamente commerciale-ndr.].
Ero interessato a dare il la a una fruizione che passasse, necessariamente, attraverso la privilegiata cruna dell'ago della tattilità (... l'istinto primario al "toccare", per intenderci). Se l’oblio, come nebbia ovattata, aveva finito per negare una identità, io non agii che su precisi "particolari" per tentare di trasformare in mistica seduzione la sfocatura che li aggrediva. Tattilità e cromatismo furono i miei imperativi. Espedienti che mi avrebbero permesso di confezionare (quasi dovrei dire falsificare) il passaporto per queste entità pulsanti: d'improvviso vive e calde quanto a esteriorità ma pur sempre "fredde" dentro, per come sarebbe stato lecito aspettarsi.
Insomma mi misi a giocare con le categorie dell'ATTESO e dell'INATTESO, non tralasciando di farle scontrare.
A riguardo, in quegli anni mi esprimevo in questi termini: 

"... ciò che muove il mio interesse è l’idea di poterli aprire o chiudere per il solo piacere di farlo.Penso a questi Oggetti come a scrigni vuoti; non immagino cosa andranno a contenere. Penso alle loro forme, al loro predominio sul contenuto, a dove si andranno a posare l’occhio e la mano."

Nello spostare l'attenzione su particolari, per così dire, non contemplati, come il far leva sull'istinto ad aprirne o chiuderne i pesanti portelli senza un motivo preciso, ho finito per mettere in crisi una memoria ancorata a un ipotetico quanto antico uso dell'oggetto. Trattando alcuni dettagli come fossero parti di un unico e più alto gesto di apertura, come di chiusura su qualcosa d’altro che non fosse cibo deperibile, provocai un blackout esperenziale.
Oggi, a distanza di dieci anni mi pento di non aver documentato (sia a livello audio che video) il reiterarsi a catena delle reazioni della gente a quanto sopra descritto. La domanda ricorrente

...ma questi frigoriferi funzionano, vero?

... prese, oserei dire, una connotazione la cui retorica lì per lì mi incuriosì più di quanto potessi immaginare. Ma poi fu l'apprensione con cui si chiedeva ad impressionarmii... .
La banalità in sè del quesito, del tutto plausibile se scremato della ossessione con cui era posto, nascondeva una scaturigine che mi spingeva ad indagare: dopo una lunga serie di feedback assolutamente identici, sulla base di un campionamento di tipi anche molto diversi tra loro, ragionai da un lato sulle reazioni del singolo messo di fronte a un oggetto d'uso comune ma cosìddetto d'arte. Dall'altro, sulle reazioni codificate della massa consumatrice, specie se indotta ad interagire con un  oggetto saputo vecchio, in disuso quindi, ma "conciato per le feste”. Ebbene, pur innegabilmente attratti, vidi più o meno tutti reagire sulla scorta di una memoria fittizia. Sulla scorta cioè di ciò che sapevano o credevano già di sapere a riguardo. Ciò che toccavano, vedevano, sentivano o assaporavano al momento, sembrava non contribuire affatto alla conoscenza.
Spiazzato nelle aspettative, il fruitore medio sentiva rapida l'esigenza di avere riconferma circa ciò che gli era noto, senza pensarci su: e cioè che essendo quell'oggetto un frigorifero bhè! che allora esso dovesse far freddo. Di più. Che dovesse continuare a produrre freddo proprio perchè sottratto al disuso (nonostante l'Arte, l'oblio, la dimenticanza, ecc.) .
Osservando le reazioni in diversi contesti e per diverse tipologie di fruitori, realizzai quanto fosse proprio lo spiazzamento prodotto a far riemergere una idea di ricordo definibile ipocrita. Ovvero quanto il bisogno di essere rassicurati circa nome, categoria o idea originaria, in realtà fosse una difesa di fronte a un attacco la cui natura non si svelava per codici conosciuti. Sarebbe semplicistico obiettare si trattasse della classica reazione di un pubblico impreparato dato in pasto a un esempio d'Arte cosiddetta contemporanea. Fu la prima cosa che mi passò per il cervello, ma c'erano degli elementi che mi portavano oltre un problema di cultura, di estetica o di linguistica. Perchè lì, attorno a quegli oggetti, c'era proprio il conosciuto a dibattersi senza trovare via d'uscita.

Quali erano le motivazioni del disagio?

Arrivai a registrare che nessuno o quasi , di fronte al luccichio e al vetrificato di quegli oggetti, poteva pensare se (o cosa) avrebbero potuto contenere. Contenere ora però! Solo e proprio ora che dopo essere stati riesumati diventavano altro. Era importante cosa c'era dentro?

Erano o non erano frigoriferi?

Ebbene, sapere che funzionassero è sempre risultata la condizione necessaria a riportare tutto e tutti a una più facile condizione di sollievo, direi di rassicurante ricollocazione e poi di ascolto. Come se una specie di latente senso di colpa, forse dovuto a qualche esperienza personale in merito, trovasse per un momento improvvisa esplicitazione in quel riemergere smaccatamente bello. E magari proprio per quell'inspiegabile spinta ad andare a toccare, ad aprire per andare a vedere.
L'impressione che ho continuato ad avere dopo anni, è che quella difficoltà dovesse essere placata tramite l'ausilio di un riconoscimento virtuale. Proponendo un FRIGO anni '50 come oggi si proporrebbe un cellulare ultimo modello, creavo uno spiazzamento, uno scompenso da colmare in qualche modo. Una specie di imprevisto.
In questo senso la mia operazione non è stata mai una operazione di design. Come mai è stata una pura e mera decontestualizzazione. Mai ho cercato una provocazione fine a sé stessa. Nè ho creduto di rifare Duchamp, cui per altro come artista contemporaneo sento, inevitabile, la discendenza. L'auspicio è stato piuttosto quello di operare una lieve forzatura sensoriale e percettiva affinchè metaforicamente si "accedesse" al solito, al già codificato e masticato, al massificato e al messo da parte, attraverso dove non si era mai entrati. In un certo senso procedendo a tastoni, attraverso mani e occhi diversi.
Il progetto FRIGO ha segnato una tappa. In quanto tale mai l'ho considerato un progetto chiuso. Ho sempre cullato altresì l’idea, fin da quando il tutto prese il via con il primo Bosch Zebra, del percorso a ritroso. Dell'indagine sia di segno che di senso opposto. La cura, l’attenzione, la volontà di evocare l'esistente tramite punti privilegiati, particolari inattesi o disattesi, attraverso spiragli piuttosto che attraverso portoni (... pesanti portelli dovrei dire qui!), non è giocoforza peculiarità rivitalizzante. Un colpo mortale inferto, una cosciente (in taluni casi incosciente) quanto puntuale azione inversa segue lo stesso percorso concettuale. La morte, contrapponendosi polarmente alla (ri)nascita, finisce con l’assomigliarle anche nel mondo trito e ritrito di ciò che l'uomo produce fuori e altro da sè (oltre che fuori di sè!). Entrambi estremi dello stesso percorso, morte e nascita condividono la stessa essenza. Coincidenza di opposti, illusione di lontananza quale terreno d'indagine.


PAOLO CARLETTI/Frigo: questo non è un frigorifero

Pensieri sull'identità dell'oggetto,riportati tali e quali li scrissi quando resi pubblico il progetto


"Certe” forme destano interesse.
Sono attratto dalle forme bombate di queste presenze, dal rumore sordo, potente delle chiusure, delle loro maniglie cromate anni '50/'60.
Ritengo stupefacente la personalità intrinseca di questi Oggetti, ovunque essi siano relegati.
Ne ricostruisco e ripristino maniacalmente le forme. Ne lucido le cromature, ne pulisco e restauro esterni ed interni, ne riparo le parti meccaniche ed elettriche ove necessario. Compiendo un lavoro lungo, difficile da riconoscere per tortuosità e complessità, li riporto a nuova vita.
Ma ciò che più conta ne contraffaggo l’identità. Alla stregua di un tatuatore ne stravolgo la pelle con la pittura. Combino le potenzialità dell’aerografo a pennellate più o meno corpose. Ora predomina il primo, ora le altre. Una tecnica mista, versatile. Costruisco per trasparenze, per ottenere vaste gamme cromatiche. Quattro mani di trasparente acrilico "vetrificano” l’intero lavoro. Un processo non dissimile all’ibernazione, vita o morte che rappresenti.
Non credo, all’ interno di questo mio personalissimo iter, in un recupero pedissequo e unilaterale atto a restituire questi oggetti ad un loro ipotetico quanto improbabile passato. Io consegno loro una dote, un nuovo passaporto, li libero dalla serialità, da un ruolo precostituito. Curandone le malattie dell’incuria, della dimenticanza, attuo una sorta di "traghettamento”. Così essi funzionano, possono benissimo contenere champagne o formaggio, ma, ciò che più conta, possono divenire altro da sè. Amo pensarli come scrigni capaci di contenere il nulla. Come forme autosufficienti. Non immagino cosa andranno a contenere, penso alle loro forme e al loro predominio sul contenuto... a dove si andranno a posare l’occhio e la mano.

THIS IS NOT A REFRIGERATOR

”Certain” shapes arouse one’s interest.
I am attracted to their rounded forms, the dull and powerfull sound they make when they are closed, and their fifties and sixties style chromium-plated handles. I am amazed by the intrinsic personality these Object retain, no matter where they have been relegated to.
I reconstruct and painstakingly restore their appearance, polishing their chrome work, cleanig them up and renovating them inside and out. And i repair their mechanical and electrical parts where necessary.
It is a lengthy process, the tortuosity and complexity of which is difficult to recognise, by which i bring them back to life. But what is most important is that i alter their identity. Just like a tattooist, i transfigure their skins with my painting. I combine the potentiality of the airbrush with various degrees of brushwork. Sometimes it is the former that predominates, at others the latter. It is a mixed and versatile tecnique. I build up the image using traspariences in order to obtain a vast chromatic range. Four coates of clear acrylic are then used to "vitrify” the whole work. It is a process that it is not unlike that of cryonics, whether that means conserving life or death.
But i do not believe this very personal path i have taken is a matter of menial and unilateral renovation work aimed at restoring these objects to their hypothetical not to say improbable past glory. I give them with a new lease of life, a new passport. I free them from their serial nature, their pre-constitued role. By curing their diseases of neglect and oblivion, i serve as a kind of ”ferryman”.
They are thus put into working order and can very well contain champagne or cheese. But what is most important, is that they can become something different from what they are. I love to think of them as caskets able to contain nothing at all, like self- sufficient forms. I do not image what will go into them, i think of their shape and their predomination over the content... of where the eye and the hand will rest on them.